La storia : Napoleone in
Emilia Romagna
Nell’età napoleonica
l’Emilia Romagna ha avuto un ruolo da protagonista: qui Napoleone sperimentò un
modello di conquista, poi esteso a tutta l’Europa, basato non solo sulle sue
indubbie abilità militari ma anche e soprattutto sulla modernità delle
soluzioni istituzionali e amministrative di cui si fece portatore. Con
Napoleone giunse la Rivoluzione dell’89, una rivoluzione ormai alla ricerca di
uno stabile equilibrio tra innovazione e ordine, garantito dalla tutela
rigorosa della proprietà privata borghese. Lo Stato napoleonico fu uno
Stato laico, fondato sull’uguaglianza di fronte alla legge, su un “contratto
sociale” che ha il suo presupposto nell’idea di nazione, in cui i cittadini
esprimono la propria volontà attraverso forme di rappresentanza elettiva. Uno
Stato che, per garantire il progresso civile e materiale, si dota di una fitta
rete di strutture burocratiche e di funzionari, nei settori dell’economia,
dell’istruzione, dell’ordine pubblico, del fisco ecc.
Quando le truppe francesi
varcarono i confini emiliani a Castel San Giovanni ed entrarono a Piacenza,
all’inizio di maggio del 1796, fu subito chiaro che il ruolo della regione nel
conflitto in corso sarebbe stato rilevante. Dopo la breve fase della Repubblica
cispadana, nel maggio del 1797 Napoleone pose fine all’operazione statale in
Emilia, fondendola con la Repubblica cisalpina, che avrebbe avuto per capitale
Milano, in uno Stato esteso dalle Alpi all’Adriatico. A novembre la regione fu
suddivisa in sette dipartimenti: Crostolo, con capoluogo a Reggio; Panaro, con
Modena; Reno, con Bologna; Alta Padusa, con Cento; Lamone, con Faenza;
Rubicone, con Rimini; Basso Po, con Ferrara.
Anche la Romagna, estranea
fino ai primi mesi del ’97 all’avventura “francese”, vi era stata inserita di
forza. Unita Imola fin dal 1° febbraio alla Repubblica bolognese, le truppe
francesi prevalsero rapidamente sull’esercito pontificio nella battaglia sul
Senio. Faenza, Forlì, Cesena, Rimini, Ravenna furono occupate tra il 3 e il 4
febbraio senza opporre alcuna resistenza, mentre gran parte della popolazione
delle campagne abbandonava terrorizzata i propri borghi, cercando rifugio sui
monti. Il 19 febbraio, con le truppe francesi scese fino alle Marche e
all’Umbria, a Tolentino fu firmato il trattato di pace con Pio VI.
Il territorio romagnolo fu
rapidamente organizzato sotto la direzione di un’amministrazione centrale
dell’Emilia, alla quale dovevano fare capo tutte le municipalità. Furono
aboliti i titoli nobiliari, le livree, gli stemmi gentilizi, furono soppressi i
feudi, ridotti di numero i conventi, eliminata qualsiasi giurisdizione
privilegiata degli ecclesiastici e ogni loro esenzione fiscale, liberalizzati
gli scambi commerciali: anche per la Romagna la nuova dimensione di una società
moderna stava prendendo forma. Ciò avvenne però insieme alle consuete
requisizioni di guerra e all’imposizione sulle rendite e sui patrimoni dei
cittadini, di contributi in denaro e vettovaglie, che danneggiarono l’economia
e alimentarono il malcontento, terreno di coltura dell’insorgenza popolare
antifrancese, fomentata dalla propaganda ecclesiastica. Si costituirono vere e
proprie bande, soprattutto nelle montagne del Cesenate e del Riminese, come
pure a Lugo e a Massalombarda. In tutti i casi la repressione fu durissima.
Non pochi furono i motivi
di insoddisfazione, particolarmente dopo la partenza di Napoleone per la
campagna d’Egitto, nel 1798, a causa delle vessazioni e imposizioni determinate
dall’alleanza con la Francia. Numerose furono le esplosioni di malessere
sociale, causate, in particolare, dal pesante fiscalismo. Vi furono certamente
importanti riforme, come l’eliminazione dei privilegi, l’uguaglianza di fronte
alla legge, la libertà di pensiero e di stampa, contraddette però da provvedimenti
che limitavano la libera vita associativa.
La vendita dei beni
ecclesiastici andò quasi esclusivamente a vantaggio della ex nobiltà e della
ricca borghesia, anche grazie ai legami sociali con gli uomini di governo, che
spesso permettevano l’acquisto delle terre a basso prezzo e forti dilazioni nei
pagamenti. Non fu realizzata alcuna riforma agraria, invece, che andasse a
vantaggio della piccola proprietà.
Nella primavera del 1799,
le truppe austro-russe, affiancate dalle bande di “insorgenti”, dilagarono
vittoriose in regione: il vecchio regime tornò ovunque e le reggenze imperiali
tentarono di restaurare l’assetto economico-sociale sconvolto dall’avvento dei
francesi. Tuttavia ormai alcuni cambiamenti, come la vendita delle terre, non
vennero toccati, per non inimicarsi i ceti sociali più ricchi. Il ritorno di
Napoleone, dopo la travolgente campagna del giugno 1800, culminata con la
vittoria di Marengo, fu accolto con entusiasmo, poiché esso rappresentava il
riaffermarsi di valori ormai collettivamente condivisi (autogoverno,
uguaglianza, libertà, democrazia, indipendenza nazionale) anche se nei fatti
scarsamente applicati. Gli austriaci, invece, rappresentavano un puro ritorno
al passato.
Il 26 gennaio del 1802, a
Lione, un’assemblea di rappresentanti italiani votò una nuova costituzione e
approvò la nascita della Repubblica italiana, presieduta dallo stesso
Napoleone.
Fu avviato in seguito un
significativo sforzo per uniformare e omogeneizzare la legislazione e
l’amministrazione del territorio (codice civile, penale, di commercio, ecc.),
estesi a tutta la società. Il nuovo Stato si avvalse di un esercito nazionale,
di una precisa macchina giudiziaria, di un apparato fiscale ordinato e
metodico, in grado di garantire il flusso di ricchezza.
La costituzione accentuava
ruolo e poteri del potere esecutivo, affidando l’espressione della sovranità
nazionale a tre collegi di 700 persone, divise tra possidenti, commercianti e
dotti, che esemplificavano la nuova gerarchia di valori fondata sulla ricchezza
e sui “lumi”. Figura amministrativa fondamentale divenne quella del prefetto,
espressione diretta del potere centrale, con poteri di polizia, di controllo
sull’autorità dipartimentale e comunale, di supervisione delle spese e di
preparazione dei bilanci. Il territorio regionale fu suddiviso nei dipartimenti
del Crostolo, Panaro, Reno, Basso Po e Rubicone, con capoluogo rispettivamente
Reggio, Modena, Bologna, Ferrara e Cesena.
Il passaggio dalla
Repubblica al Regno d’Italia, nel maggio del 1805, con Napoleone imperatore,
non mutò nella sostanza simili linee di sviluppo. Gli aspetti qualificanti
dello Stato moderno, di cui si era intrapresa la costruzione, restarono tutti,
salvo accentuare i caratteri di rigidità centralizzatrice, di autoritarismo
amministrativo, di immobile fissità delle gerarchie sociali fondate sulla
ricchezza, formalmente riconosciute da Napoleone con l’istituzione di nuovi
ordini nobiliari legati al suo trono. La macchina amministrativa del Regno
richiese un apparato vasto di funzionari ed impiegati competenti. Essa però
apparve spesso come una cappa soffocante per i singoli e per le comunità
locali. Il blocco continentale e le continue guerre, che significavano nuove
tasse, campi di armamenti dislocati lungo l’Emilia, incursioni di nemici,
bisogno incessante di soldati, alimentarono il malcontento, la renitenza alla
leva, il brigantaggio e l’insorgenza.
Alla fine del 1813, dopo
il disastro russo e la sconfitta di Lipsia, riapparvero gli austriaci nel
dipartimento del Basso Po e sulle coste romagnole sbarcarono truppe della
coalizione antifrancese. Gioacchino Murat, cognato di Napoleone, tentò
vanamente di inserirsi nel gioco diplomatico, occupando temporaneamente le
maggiori città della regione. Vi tornò nel 1815, nel periodo dei “cento giorni”,
tentando una “lotta di liberazione” dell’Italia dallo straniero. Le
appassionate parole del proclama di Rimini (“L’ora è venuta che debbono
compiersi gli alti destini d’Italia. La provvidenza vi chiama infine ad essere
una nazione indipendente. Dall’Alpi allo stretto di Scilla odasi un grido solo:
l’indipendenza d’Italia”) erano premature poiché non era ancora sorta una
coscienza nazionale. Tuttavia, l’esperienza napoleonica non era passata invano:
il ritorno al vecchio regime era ormai un vestito troppo stretto.
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