domenica 13 novembre 2016

LA CANTINA MANCINELLI A MORRO D’ALBA

Nessun dubbio che il principale interprete del vitigno e del vino Lacrima di Morro d’Alba sia Stefano Mancinelli, titolare della azienda, che in 25 anni di lavoro ha prima salvato questa uva particolarissima dall’oblio (il Lacrima si chiama così perché a piena maturazione tende a spaccarsi, a ‘lacrimare’, ciò comportando non pochi problemi in cantina), e poi ha affermato il vino che se ne ottiene come una delle più rilevanti unicità enogastronomiche dell’intera regione. Mancinelli produce anche un eccezionale versione di Lacrima con residuo zuccherino, dimostrando una conoscenza del territorio e del vitigno che non è seconda a quella di nessun altro produttore.
Azienda a conduzione familiare, ha un'estensione di 52 ha, 23 dei quali a vigneto, il resto ad oliveto e seminativo. Nella cantina vengono vinificate soltanto le uve coltivate direttamente nella proprietà. L'azienda comprende anche un frantoio destinato alla produzione propria di olio, ed una distilleria utilizzata per la produzione di grappe monovitigno di Lacrima e di Verdicchio. E’ possibile, in una sala adibita, degustare questa gamma di prodotti per apprezzarne il gusto e la qualità che scaturiscono da una particolare cura in tutte le fasi di produzione, relativa a ciascun prodotto.
Sulle dolci colline di Morro d’Alba, a circa 10 km dal mare Adriatico, si coltivano i vigneti e gli oliveti di Stefano Mancinelli.   In una zona dell’entroterra marchigiano particolarmente vocata. La superficie della nostra azienda, di circa 60 ha, è per 25 ha coltivata a vigneti specializzati nella produzione di vini a Denominazione di Origine Controllata, Lacrima di Morro d’Alba D.O.C. e Verdicchio dei Castelli di Jesi D.O.C. Classico, tipici del territorio. Sui terreni sono impiantati anche 1500 olivi delle più diffuse varietà locali - frantoio, raggiolo, leccino, raggia - dai quali, attraverso la trasformazione nel frantoio aziendale, che avviene sempre e rigorosamente lo stesso giorno della raccolta, otteniamo un Olio Extravergine di Oliva con acidità molto bassa, con caratteristiche di fruttuosità ed aromaticità. 
Sulle dolci colline di Morro d’Alba, a circa 10 km. dal mare, nella provincia di Ancona, si coltivano i vigneti e gli oliveti di STEFANO MANCINELLI, in una zona dell’entroterra marchigiano particolarmente vocata. La superficie dell’azienda (52 Ha.) è per metà circa coltivata a vigneti specializzati per la produzione di vini a Denominazione di Origine Controllata, LACRIMA DI MORRO D’ALBA D.O.C. e VERDICCHIO DEI CASTELLI DI JESI D.O.C. CLASSICO. Al fine di migliorare la qualità delle produzioni, la quantità di uve prodotte viene limitata sia in fase di potatura secca, che con un diradamento del frutto all’epoca dell’invaiatura. La vinificazione è limitata esclusivamente alle uve prodotte nei propri vigneti, e si avvale di metodi tradizionali di base, supportati da moderne attrezzature. In azienda esiste anche un moderno frantoio che permette la lavorazione immediata delle olive raccolte giornalmente e quindi la produzione di un OLIO EXTRA VERGINE D’OLIVA con acidità molto bassa e con caratteristiche di estrema fruttuosità ed aromaticità. Un cenno particolare va riservato all’impianto di distillazione, il primo nella nostra regione, dal quale si ottengono, distillando le vinacce freschissime della nostra cantina, GRAPPA DI LACRIMA e GRAPPA DI VERDICCHIO. L’obbiettivo principale dell’Azienda Mancinelli è sempre la ricerca della qualità e l’esaltazione della tipicità dei propri prodotti, attraverso la cura e la selezione della produzione in campo e l’aggiornamento delle tecniche di trasformazione. 
Una particolare eccellenza dell’azienda è rappresentata dall’impianto di distillazione, primo nella nostra regione, dal quale si ottengono, distillando le vinacce freschissime della nostra cantina, Grappa di Lacrima e Grappa di Verdicchio in varie forme e tipologie.
Si fosse chiamata Lacrima di Radda in Chianti, l’avrebbero venduta anche nelle peggiori enoteche di Kathmandu. Lacrima di Morro d’Alba è invece una doc 100% Marche e poco conosciuta in quanto tale. Siamo a Morro d’Alba, castello di Jesi a 10 km dal mare. Il vitigno lacrima ha bacca rossa, spiccata aromaticità e storia nobile che arriva fino alle bevute di Federico Barbarossa, nel 1167. Stefano Mancinelli è stato forse il principale artefice della riscoperta di un autoctono che negli anni Ottanta era destinato all’oblio: la doc è arrivata nel 1985. Per distinguersi da chi furbescamente miscela un’uva rossa fortemente aromatica con altre che non lo sono, Mancinelli certifica geneticamente i propri rossi a base lacrima per garantirne l’autenticità. È l’unico a farlo.
Legalismi a parte, la sua Lacrima di Morro d’Alba superiore 2009 è uno dei veri campioni di categoria. Violaceo, intenso e profumatissimo. Rosa, viola e frutti di bosco impattano il naso con freschezza e riconoscibilità. Fragrante e immediata, questa Lacrima è un prototipo di naso moderatamente complesso ma intrigante a tal punto da succhiare avidamente il respiro. A conferma delle ottime premesse, il sorso si snoda tra attacco soffice, tenore alcolico misurato, corpo snello, finale infiltrante e sottilmente pepato. Vino gustoso e tipico, più ricco del “base” aziendale – quel Podere Santa Maria del Fiore che rappresenta uno dei must della denominazione per rigore esecutivo e reperibilità – e decisamente migliore del Sensazioni di frutto, spinto aromaticamente dalla macerazione carbonica ma sin troppo spogliato nella progressione gustativa. 12 euro in enoteca per un vino da 88/100, media di 90 (naso di rara piacevolezza) e 86 (corpo e complessità).
Se si parla di Morro d’Alba viene facile alla mente uno dei paesi delle Langhe, più raro il collegamento alle Marche. Morro d’Alba è un piccolo paese in zona appena collinare in provincia di Ancona, non distante dal mare Adriatico. La c’è un vitigno, il Lacrima, che da qualche decennio ha un ruolo di tutto riguardo tra i rossi italiani. Colui che ha riscoperto e creduto in questo vitigno/vino, attraente già dal nome, lanciandolo alla ribalta del mercato è Stefano Mancinelli dell’omonima cantina. Quando nel 1985 il Lacrima di Morro d’Alba ricevette la denominazione d’origine controllata, il riconoscimento avvenne su sette ettari di cui quattro posseduti da Mancinelli.

Oggi da quegli ettari che sono diventati tredici viene prodotto il Lacrima base, il Lacrima superiore, il Terre dei Goti ovvero  un Lacrima passito ma secco, il Re sole vino dolce ottenuto da uve fatte appassire e il Sensazioni di frutto ottenuto da macerazione carbonica. 
Altri cenni su MORRO D’ALBA

Nel Palazzo della Residenza Comunale di Morro d'Alba, costruito nel Settecento, ampliato e modificato all'inizio del Novecento, sono oggi conservate varie opere, tra cui una pala d'altare di Claudio Ridolfi, pittore di origine veneta, ma attivo soprattutto nelle Marche, raffigurante "L'Incoronazione della Vergine e Santi" e una tela del XVII secolo raffigurante San Michele Arcangelo, un tempo tutte collocate all'interno di chiesette locali. Anche nella Chiesa Parrocchiale di San Gaudenzio, situata all'interno della cinta muraria e ultimata negli anni '70 del Settecento, sono conservate alcune interessanti opere; tra queste una "Crocifissione con Santi" di Ercole Ramazzani (1596) e una tela del romano Silvio Galimberti (1922) in cui San Michele Arcangelo, protettore del paese, in posizione centrale con, ai lati, San Rocco, San Francesco, San Filippo e San Maurizio.
Quella della SS. Annunziata, oggi non più officiata, è stata eretta nel 1670 e conosciuta anche col nome di Santa Teleucania. Una accurata ristrutturazione, completata nel 1997, ha destinato la sala superiore, un tempo dedicata al culto, ad auditorium e sala congressi, mentre i sotterranei sono stati riadattati per ospitare mostre ed esposizioni.
Da non perdere, a Morro d'Alba, anche il Museo "Utensilia", ora situato nei sotterranei del

Castello. Questo museo della cultura mezzadrile ospita in otto sale una raccolta ragionata di oggetti di lavoro tradizionali, testimoni dell'autosufficienza della civiltà contadina. Aratri, telai, vagli, carri, botti, scale, falci, torchi e altri strumenti venivano costruiti nelle lunghe sere invernali dalle famiglie contadine, che ricorrevano all'aiuto del fabbro per le sole parti metalliche.
Altri cenni su MORRO D’ALBA

Nel Palazzo della Residenza Comunale di Morro d'Alba, costruito nel Settecento, ampliato e modificato all'inizio del Novecento, sono oggi conservate varie opere, tra cui una pala d'altare di Claudio Ridolfi, pittore di origine veneta, ma attivo soprattutto nelle Marche, raffigurante "L'Incoronazione della Vergine e Santi" e una tela del XVII secolo raffigurante San Michele Arcangelo, un tempo tutte collocate all'interno di chiesette locali. Anche nella Chiesa Parrocchiale di San Gaudenzio, situata all'interno della cinta muraria e ultimata negli anni '70 del Settecento, sono conservate alcune interessanti opere; tra queste una "Crocifissione con Santi" di Ercole Ramazzani (1596) e una tela del romano Silvio Galimberti (1922) in cui San Michele Arcangelo, protettore del paese, in posizione centrale con, ai lati, San Rocco, San Francesco, San Filippo e San Maurizio.
Quella della SS. Annunziata, oggi non più officiata, è stata eretta nel 1670 e conosciuta anche col nome di Santa Teleucania. Una accurata ristrutturazione, completata nel 1997, ha destinato la sala superiore, un tempo dedicata al culto, ad auditorium e sala congressi, mentre i sotterranei sono stati riadattati per ospitare mostre ed esposizioni.
Da non perdere, a Morro d'Alba, anche il Museo "Utensilia", ora situato nei sotterranei del

Castello. Questo museo della cultura mezzadrile ospita in otto sale una raccolta ragionata di oggetti di lavoro tradizionali, testimoni dell'autosufficienza della civiltà contadina. Aratri, telai, vagli, carri, botti, scale, falci, torchi e altri strumenti venivano costruiti nelle lunghe sere invernali dalle famiglie contadine, che ricorrevano all'aiuto del fabbro per le sole parti metalliche.
LE ARCHITETTTURE RELIGIONE A MORRO D’ALBA
Parrocchiale di San Gaudenzio
La chiesa principale, che reca la data 1763 iscritta sul portale, sorge quasi a ridosso delle mura castellane ed è lambita dal camminamento detto “la Scarpa”.
Il grande edificio è l’elemento architettonico più importante del nucleo fortificato: un bell’esempio di architettura religiosa marchigiana della seconda metà del Settecento e definisce in modo significativo, contrapposta al Palazzo Comunale, la piazza interna del castello.
L’interno è a croce latina con un’unica navata, nel transetto e nelle cappelle laterali si trovano altari tutti diversi, riccamente decorati con colonne, stucchi, pitture e statue; nell’abside, in una nicchia coronata da stucchi e dorature, trova posto un trono ligneo dorato con l’immagine della “Madonna del Soccorso” (inizio XVIII sec.).
Sulla parete di fondo, al disopra dell’ingresso, si trova il ballatoio con parapetto modanato in legno dipinto su cui troneggia un bellissimo organo di fine XVIII secolo.
Fra le opere presenti, si può ammirare, nel primo altare di destra, una tela firmata dall’artista arceviese Ercole Ramazzani “Crocifissione con Santi” (1596).
Nell’altare del transetto destro, sopra una nicchia con Crocifisso, è presente una tela mobile di Silvio Galimberti, importante pittore romano: “San Michele Arcangelo” fra altri Santi (1922).
Sotto lo stesso altare è stata collocata, nel 1985 (dopo la ristrutturazione della chiesa della SS. Annunziata), l’urna contenente il corpo di “Santa Teleucania” (sec. XIX), l’epigrafe tombale in marmo e il paliotto che nascondeva il corpo nell’altare della chiesa precedente.
Altre opere presenti: “San Gaudenzio” e “Ultima Cena”, due tele di ignoti artisti locali (sec. XVIII) e due pale del già citato S. Galimberti: un “Sacro Cuore di Gesù” (1918) e una “Immacolata Concezione” (1922 circa) fra San Gabriele dell’Addolorata, San Luigi Gonzaga e San Tarcisio.
Presso il Fonte Battesimale: “Battesimo di Gesù” (1940), copia della celebre opera di Andrea “Verrocchio” con la collaborazione di suoi allievi, fra cui Leonardo da Vinci, eseguita da Ciro Pavisa da Mombaroccio.

Auditorium SS. Annunziata
Della Chiesa della SS. Annunziata, edificata all’esterno della cinta muraria, non si conosce la data esatta della sua edificazione, ma era sicuramente ultimata il 4 maggio 1670 quando vi venne celebrata la prima messa. Nell’ultimo periodo è stata meglio conosciuta come Chiesa di “Santa Teleucania” dopo che, dal 1836, custodì il corpo della Santa che divenne oggetto di culto e che veniva esposto ai fedeli solo in occasione della sua festa (4 settembre).
Scemato il fervore mistico, inutilizzata e caduta ormai in degrado, nel 1997 il Comune, proprietario dell’immobile, dopo la sconsacrazione ha inteso promuovere il riuso del complesso, finalizzandolo ad un utilizzo socio-culturale per convegni, concerti e mostre. In particolare, l’ambiente in precedenza dedicato al culto è stato adibito ad Auditorium-Sala Congressi, mentre i locali sottostanti sono stati allestiti come Centro Espositivo.

Al suo interno è esposta la pala raffigurante l’“Annunciazione” con San Giuseppe e Sant’Antonio da Padova (sec. XVIII) e altre due tele: “Visitazione” (sec. XVII) e “San Giovanni Battista e Sant’Antonio” (sec. XVIII), tutte opere di autori ignoti.
MORRO D’ALBA
A 10 km dal mare Adriatico, sulla linea di colline tra Senigallia e Jesi, Morro d'Alba domina la campagna circostante.
Morro d'Alba ha origini lontanissime.
La sua esistenza storica è accertata intorno all'anno Mille, quando compare come "Curtis" in un atto imperiale di Federico I. Ma le sue campagne, le zone dell'attuale territorio comunale, risultavano già abitate in epoca romana. Ad attestarlo è un medaglione aureo che riporta la scritta ricostruita "Theodoricus pius princeps invictus semper", rinvenuto in una tomba a Sant'Amico, nelle vicinanze del paese e oggi conservato presso il Museo delle Terme di Roma. Il toponimo sembra ricordare la "mora" o cippo di confine sull'"alba" o colle, che segnava la separazione tra i comitato medievali di Jesi e di Senigallia.
Compare invece come "Castrum" in un altro atto del 1213, quando Senigallia è costretta a cedere Morro d'Alba al vicino comune di Jesi. Entrerà così a far parte del contado della "Respublica Aesina", e ne seguirà tutte le sorti storiche. Nel 1326, Morro d'Alba viene assediata dalle milizie di Fabriano, e nel 1365 le mura devono essere ricostruite, forse a causa dei danni subiti da una incursione dei banditi della "Compagnia Maledicta" di FraMoriale. Nel 1481 subisce diverse incursioni degli Anconetani.
Soltanto nel 1808, con il Regno Napoleonico, viene definitivamente sottratta al comune di Jesi; è poi nel 1860, con l'unità d'Italia, che Morro d'Alba entra a far parte della provincia di Ancona. Proprio questo avvenimento comportò, nel 1862, l'aggiunta del termine Alba al nome del paese, per evitare delle confusioni con altre località del Regno.
è un piccolo paese dalle origini molto antiche situato tra Senigallia e Jesi a 200 metri sul livello del mare. Conserva molte testimonianze del passato e vanta un primato: è infatti l'unico borgo italiano fortificato ad avere una camminamento di ronda, la Scarpa, lungo tutte le mura, coperto e fiancheggiato da arcate.
La cinta muraria di Morro d'Alba, di andamento irregolarmente pentagonale con sei bastioni, è il risultato di una serie di diverse ristrutturazioni databili tra il XIII e il XV secolo. Nel corso dei secoli gli abitanti del paese hanno scavato un complesso labirinto di grotte, collegate tra loro da gallerie, che costituiscono una sorta di seconda città sotterranea. Le grotte erano utilizzate in passato soprattutto per la conservazione dei cibi, ma all'occorrenza potevano servire come estremo rifugio dalle incursioni nemiche.

I siti turistici di maggior interesse sono: il Palazzo Comunale, che custodisce la  pinacoteca con varie opere tra cui una pala d'altare del veneto Claudio Ridolfi raffigurante "L'incoronazione della Vergine e Santi"; la Chiesa della SS. Annunziata (oggi Auditorium), la Parrocchiale di San Gaudenzio, bell’esempio di architettura religiosa marchigiana della seconda metà del Settecento, il museo “Utensilia”, allestito nei suggestivi sotterranei del castello, sotto “la Scarpa”, che raccoglie una nutrita selezione di utensili e attrezzi agricoli e documenta  lo stile di vita e la cultura dei mezzadri marchigiani. Il più famoso prodotto di Morro d'Alba  è il Lacrima di Morro d'Alba, vino DOC, ottenuto dal vitigno autoctono lacrima e conosciuto già al tempo dei romani. Deve il suo nome alla particolare goccia (chiamata appunto lacrima) che fuoriesce dal grappolo d’uva quando essa giunge a maturazione. Le principali manifestazioni che hanno luogo a Morro d'Alba nel corso dell'anno sono: la " Sagra del vino Lacrima" , che si tiene ogni primo fine settimana di maggio, il "Cantamaggio", il canto rituale di questua che celebra l'avvento della primavera e della nuova stagione agricola (ogni terzo fine settimana di maggio) e la "Festa del Lacrima di Morro d'Alba e del tartufo di Acqualagna", che si svolge ogni terzo fine settimana di ottobre.

sabato 12 novembre 2016

IL CASTELLO DI MORRO D’ALBA

La cinta muraria di Morro d'Alba, di andamento irregolarmente pentagonale con sei bastioni, è il risultato di una serie di diverse ristrutturazioni databili tra il XIII e il XV secolo ed è tuttora in buono stato conservativo.
Nella seconda metà del Cinquecento, ma anche con casi precedenti, le autorità autorizzarono la costruzione di abitazioni sopra le mura, dando così origine alla cosiddetta "Scarpa", esempio unico in Italia di camminamento di ronda completamente coperto, fiancheggiato da arcate, che corre lungo tutto lo sviluppo della cinta fortificata.
Il vecchio borgo era difeso da pezzi di artiglieria del XIV XV secolo, tra cui una possente bombarda oggi conservata nel Museo Storico Nazionale di Artiglieria di Torino.
Subito dopo l'Unità d'Italia, una Commissione militare Archeologica venne a prelevare il prezioso cimelio e, come risarcimento, il Comune ricevette dal Re Vittorio Emanuele II il "Compiano", altro bellissimo pezzo di artiglieria da montagna ora conservato nei locali del Museo "Utensilia". Nel corso dei secoli gli abitanti del paese hanno scavato un complesso labirinto di grotte, collegate tra loro da gallerie, che costituiscono una sorta di seconda città sotterranea. Le grotte erano utilizzate in passato soprattutto per la conservazione dei cibi, ma all'occorrenza potevano servire come estremo rifugio dalle incursioni nemiche. Alcuni di questi sotterranei sono tutt'oggi visitabili all'interno del Museo o su concessione dei proprietari.


Il VINO MORRO D’ALBA:
Storia del vino “Lacrima di Morro d'Alba”
Il riconoscimento della Lacrima di Morro d’Alba come denominazione di origine controllata è stata definita nel 1985, potendo così e consolidare la sua importanza. La tradizione e l’orgoglio di alcune cantine del territorio di Morro d’Alba, tutti i ceppi di vitis vinifera coltivati con vitigno Lacrima sarebbero stati espiantati a favore di altri. Il Vino è conosciuto da tempi remoti : la prima citazione storica riguardante i vini di Morro d’Alba l’abbiamo grazie a Federico Barbarossa, che già nel 1167, durante l’assedio di Ancona, scelse le mura di Morro d’Alba come dimora e riparo. Gli abitanti furono costretti a cedere all’imperatore le cose più buone e prelibate, tra cui il famoso succo d’uva di Morro d’Alba.

Il vitigno
La Denominazione di origine controllata del vino Lacrima di Morro d’Alba, per essere tale, deve essere composta dal vitigno lacrima per almeno l’85% con l’aggiunta di Montepulciano e/o Verdicchio nella misura del 15% massimo.

Le zone di produzione
Originariamente comprendeva solo il comune di Morro d’Alba in Provincia di Ancona. Ora la zona è stata estesa anche a comuni limitrofi come Belvedere Ostrense, Monte San Vito, Ostra, San Marcello e Senigallia (con esclusione dei fondi valle che si affacciano sul Mare Adriatico), tutti comunque in Provincia di Ancona.

Proprietà Organolettiche
Il vino Lacrima di Morro d’Alba si presenta nel bicchiere con un colore rosso rubino intenso assieme a notevoli ed evidenti sfumature violacee. Il vino può essere immesso sul mercato già dopo la metà di dicembre, e dunque consumato per le festività natalize, così questo vino giovane fa notare un delicato e caratteristico profumo vinoso, di cantina in fermentazione. Con l’invecchiamento i toni passano invece ad un fruttato-floreale di fragola, ciliegino, more di rovo, mirtilli, viola e violetta. La struttura è abbastanza corposa e dal gusto asciutto, con un tannino evidente ma mai spigoloso e pungente. È interessante far notare come solo pochissimo produttori di Lacrima di Morro d’Alba seguano, per la maturazione del vino, la strada dell’affinamento in barriques.

Abbinamenti Consigliati
La Lacrima di Morro d’Alba è un vino tipico delle Marche che si accompagna molto bene con prodotti tipici marchigiani il salame lardellato di Fabriano, salame ciavuscolo, primi piatti al ragù con animali di basso cortile e piatti a base di carni bianche. Contrariamente a una tendenza diffusa, possiamo accostarlo anche ad alcuni antipasti marinati a base di pesce azzurro per esempio o ad alcuni tipi di brodetto di pesce all’anconitana. Alcune varianti di questo vino rientrano nelle tipologie di vino-frizzante e vino-amabile e sono consigliati da gustare a fine pasto.

Come degustarla
La temperatura di servizio del vino Lacrima di Morro d’Alba è di 16-18°C. I calici devono essere a ballon, non troppo importanti perché il vino non necessita di lunghi affinamenti prima di essere consumato.

Il vino "Lacrima di Morro d'Alba, riconosciuto a denominazione di origine controllata nel 1985, è conosciuto sin dai tempi remoti. Sembra se ne parli in alcuni scritti risalenti all'epoca dell'antica Roma. Narra la leggenda che nel 1167 Federico Barbarossa lo poté apprezzare allorché , posto l'assedio alla città di Ancona, scelse come propria dimora il Castello di Morro d'Alba.
ZONA DI PRODUZIONE
Ricade nella Provincia di Ancona e comprende l'intero territorio comunale di Morro d'Alba, Monte San Vito, San Marcello, Belvedere Ostrense, Ostra e Senigallia, con l'esclusione dei fondi valle e dei versanti delle colline del Comune di Senigallia prospicenti il mare. Le superfici certificate a DOC sono passate dai 7 ha. nell'anno di concessione della denominazione agli attuali 206 (dato 2005).
VITIGNO
Questo vino si ottiene da un vitigno autoctono antico, il Lacrima, che veniva tradizionalmente maritato all'olmo e all'acero e si coltivava nelle ricche alberate che caratterizzavano le colline del territorio di produzione.
Soltanto agli inizi degli anni ottanta alcuni produttori, convinti dell'opportunità di far conoscere il prodotto e di valorizzarlo, sostenuti dalla pubblica amministrazione, sono riusciti a ridare nuovo lustro a questo vitigno.
Il nome Lacrima deriva dal fatto che la buccia dell'uva, quando arriva al punto di maturazione, si fende, lasciando gocciolare, lacrimare, il succo contenuto. La buccia dell'uva Lacrima ha tuttavia uno spessore notevole, il che, in fase di macerazione, fa sì che la cessione di antociani, tannini e sostanze coloranti, sia enorme.
Il vitigno lacrima, in misura non inferiore all'85%, viene vinificato in presenza oppure con l'aggiunta di uve prodotte da altri vitigni a bacca nera, non aromatizzati, idonei alla coltivazione nella regione Marche, fino ad un massimo del 15% del totale.
Produzione massima per ettaro: 130 q.li per il prodotto base e passito; 100 q.li per il superiore
Resa massima dell'uva in vino: 70% (per la base e il superiore); 45% (per il passito)
Il vitigno Lacrima è estremamente versatile: si adatta bene alla vinificazione classica per la produzione di normali vini da pasto, va benissimo in macerazione carbonica per ottenere un novello con fragranze sopra la media ed è stupendo per la vinificazione
CARATTERISTICHE ORGANOLETTICHE
Alla vista: colore rosso rubino carico con riflessi violacei.
All'olfatto: profumo gradevole intenso abbastanza persistente, ampio, fruttato con riconoscimenti di frutta /ciliegia e prugna) e di fiori (rosa appassita e viola mammola).
Al gusto: asciutto, leggermente tannico, leggero di corpo abbastanza equilibrato.
Gradazione minima al consumo: 11^
Acidità totale: 4,5 per mille
PRODUZIONE
Vengono prodotti tre tipologie di vino:
- base (vendita consentita dopo il 15 dicembre dell'anno di vendemmia)
- superiore (gradazione minima 12^ - vendita consentita dopo il 1^ settembre dell'anno successivo alla vendemmia)
- passito (gradazione minima 15^ - vendita consentita dopo il 1^ dicembre dell'anno successivo alla vendemmia)
 ETA' OTTIMALE E SERVIZIO
Vino da bere giovane ma anche maturo, può essere affinato in bottiglia. Veste rubino quando giovane fino al granato nei lunghi affinamenti. Entra con il caratteristico aroma floreale, con sensazioni di viola, rosa, corbezzolo, erica e mirtillo accompagnato da una bellissima frutta rossa. Da servire in calice di media ampiezza a tendenza sferica, incolore, liscio ed a stelo  lungo.
Nelle versioni affinate meglio lasciar decantare per almeno mezz’ora; temperatura di servizio dai 14 ai 18°C.
Consorzio di Tutela della Lacrima di Morro d'Alba doc
Il Consorzio di Tutela della Lacrima di Morro d'Alba doc si è costituito nel 1993, secondo le norme previste dalle legge N.164/92 che regola la materia vitivinicola a livello nazionale. Ne fanno parte produttori di uve e di vino Lacrima di Morro d'Alba oltre che imbottigliatori operanti nel territorio di produzione.
Tra gli scopi e le finalità del consorzio ci sono il controllo, la tutela e la valorizzazione della produzione e commercializzazione della DOC, oltre che la promozione della sua conoscenza e diffusione.

Questo vino ed il suo vitigno omonimo, che rischiavano la sparizione a causa di una dissennata "politica degli espianti", sono stati salvati da alcuni intenditori lungimiranti che ne hanno ottenuto la doc . Oggi la sua limitata produzione è ricercatissima.
LA PASTA CASTELLINO DELLA RALO’
Un altro esempio di azienda che crede e vuole investire sul proprio territorio senza essere oggetto di campagna acquisti da parte dei grossi gruppi stranieri. Con la tenacia che l’ha sempre contraddistinta, la Ralò di San Severino Marche – con il marchio Castellino – cerca ancora una volta di consolidare il suo posizionamento sui mercati nazionali e internazionali.
Tutti in tavola, arriva la “Pasta Castellino”! A maggio – col debutto ufficiale al “Cibus” di Parma – il gruppo agroalimentare marchigiano della “Ralò”, da quarant’anni impegnato nella produzione di olive e verdure, ha lanciato due nuovi prodotti sul mercato: una pasta di semola di grano duro, leggermente essiccata e una pasta all’uovo ripiena semi-fresca. Le confezioni, pronte ad arricchire i nostri menu, usciranno dal pastificio di Matelica (ex “Mediterranea”) che l’azienda settempedana ha acquisito e ammodernato con un forte investimento. Lo stabilimento (oltre 11 mila metri quadrati) presenta oggi moderne linee automatizzate, segue nuovi concetti produttivi e può garantire al consumatore una linea di prodotti di alta qualità, totalmente “Made in Italy”.
Come detto, due sono le linee di produzione.
La prima è dedicata a una pasta di semola di grano duro, che si presenta sul mercato con il brand “Pasta Castellino”. Essa si distingue da tutte le altre tipologie di pasta in commercio poiché è una pasta fatta con un processo di lavorazione unico, originale e artigianale che, grazie a una brevissima essiccazione, rimane morbida al tatto e profuma di grano. È una pasta porosa perché trafilata al bronzo e ciò le permette di trattenere al meglio tutti i tipi di condimento.
La seconda linea di produzione, invece, riguarda la pasta all’uovo ripiena semi-fresca stabilizzata. Il prodotto si chiamerà “PastItaly”, avrà un’alta qualità grazie alle materie prime utilizzate e potrà essere conservata a lungo a temperatura ambiente, mantenendo intatte tutte le sue proprietà organolettiche. Il gruppo Ralò, sempre proiettato allo sviluppo e all’innovazione, punta molto sulle novità che la “Pasta Castellino” porta con sé sul mercato. Innanzi tutto la sua rapida cottura – dai 4 ai 6 minuti per averla “al dente”, come ben spiegato in etichetta – e poi la varietà dei metodi di cottura che vanno al di là di quelli tradizionali, come la cottura diretta nel forno a microonde e la cottura “risottata” in padella. Inoltre, la nuova pasta ribattezzata, per l’appunto, “Profumo di grano” vanta un ampio assortimento: dalla semola di grano duro alla semola integrale; dalla farina di farro alla semola di grano duro antico Senatore Cappelli; fino alle linee aromatizzate della pasta agli spinaci, della pasta alla barbabietola oppure al peperoncino, ovvero al pomodoro o al nero di seppia. Infine, la conservazione: la “Pasta Castellino” pur essendo un prodotto quasi fresco, può stare a temperatura ambiente per un lungo periodo, grazie a uno speciale packaging, peraltro molto accattivante, innovativo e tecnologicamente avanzato.
L'azienda può garantire al consumatore una linea di prodotti di alta qualità, totalmente Made in Italy, che si presenta sul mercato con il brand "Pasta Castellino".

Questa pasta si distingue da tutte le altre tipologie di pasta in commercio poiché è il frutto di un processo di lavorazione unico, originale ed artigianale che, grazie ad una brevissima essiccazione, rimane morbida al tatto e profumata di grano. E'una pasta porosa perché trafilata al bronzo e questo le permette di trattenere al meglio tutti i tipi di condimento.
Caratteristiche della "Pasta Castellino":
Rapidità di cottura: dai 4 ai 6 minuti per averla "al dente"
Varietà dei metodi di cottura: dalla cottura tradizionale alla cottura diretta in microonde alla cottura risottata in padella
Ampio assortimento: semola di grano duro, semola integrale, farina di farro, semola di grano duro antico Senatore Cappelli, linee arricchite con verdure genuine e spezie (spinaci, barbabietola, peperoncino, pomodoro, nero di seppia). Disponibile in 45 gusti diversi.
Conservazione: pur essendo un prodotto quasi fresco, può stare a temperatura ambiente per un lungo periodo grazie ad uno speciale packaging, innovativo, tecnologicamente avanzato ed oltretutto accattivante.

Formato: confezioni da 250 grammi.
L’enogastronomia a Matelica
Cucina
Oltre alle specialità tipiche marchigiane, ricordiamo le tagliatelle fatte in casa al sugo di papera, gli strozzapreti, grosse tagliatelle fatte senza uova, la panzanella, pane bagnato con acqua, sale, pepe, olio, aceto e prezzemolo, la pulenta e, naturalmente, i vincisgrassi. Tra i secondi, tradizionale è la grigliata di carne, oltre alle varie preparazioni di pesce; tra i contorni, particolari sono i ròscani, verdure filiformi amarognole (barba di frate). Tra i dolci, da ricordare sono la frusténga, bassa torta di cereali con fichi, mele, noci, alchermes e rum, la crescia fojata, uno strudel ripieno di frutta e noci, e la pizza di Pasqua, una specie di panettone con aromi particolari, mangiato sotto il periodo dell'omonima festività.
In questa singolare vallata, compresa tra il Monte San Vicino ad est, lacatena dei Monti Sibillini a sud, caratterizzata dalle bizzarrie delFiume Esino, si estende la zona di produzione del Verdicchio DOC di Matelica. L’ottima esposizione dei vigneti, la costante ventilazione, la luminosità ed il calore contribuiscono a costruire un ambiente ottimale per il ciclo vegetativo della vite. La sapiente opera dei produttori, mirata all’esaltazione della “tipicità”, unitamente all’uso delle più moderne tecnologie di vini.cazione, hanno portato il Verdicchio di Matelica ai livelli più alti dell’enologia nazionale.
La particolare morfologia del territorio ha sempre offerto un habitat adatto all’allevamento degli animali ed anche oggi non è casuale vedere al pascolo i bovini della pregiata razza Marchigiana, o gliovini della “razza fabrianese”. Un discorso a parte meritano i suini. Il turista non deve perdere l’occasione di assaggiare il “Ciauscolo”, la nutella dei salami, ovvero un gustosissimo salume da spalmare, oppure il salame “Lardellato”, la “Coppa”, la “Lonza” ed il “Salame di fegato”.
Matelica è anche Città del miele. Il nostro miele viene raccolto nell’Alta Valle dell’Esino tra colline, campi, boschi e corsi d’acqua in un habitat ancora incontaminato; particolare è il miele millefiori e quelli mono.oreali. La vera caratteristica del territorio viene espressa dalla “Melata di Quercia”, un miele amaro molto apprezzato. Al ristorante potrete trovare molti piatti della tradizione contadina; tra i primi piatti spiccano i “Vincisgrassi” e le “Tagliatelle della trebbiatura”.
Tra i secondi piatti, oltre il “coniglio in porchetta” e “pollo in potacchio”, la classica “coratella d’agnello”. Per quanto riguarda i dolci , “la crescia fojata”,uno strudel ricco di noci, uva secca,fichi secchi e mele; “la frustenga”, tra i cui ingredienti annovera la dolcissima “sapa”, mosto d’uva condensato ed infine la bianca, friabilissima e leggerissima “ciambella di Pasqua”.
Il turista che ama scoprire ed assaporare i prodotti tipici ed i vini delterritorio, non può non visitare l’Enoteca Comunale, situata in quella cheuna volta era la cosiddetta “Loggia del Pesce” . Aperta al pubblico tutti i giorni (tranne il lunedì), è a disposizione per degustazioni, acquisti ed informazioni. Annesso all’Enoteca è il Centro Italiano d’Analisi Sensoriale, nel quale, grazie all’utilizzo delle tecnologie più avanzate e al lavoro di personale quali.cato, si eseguono test di determinazione qualitativa e di tipicità territoriale su vini e prodotti alimentari.
Piatti tipici Matelica
 Brodetto all'anconetana
Pulite e lavate bene il pesce, imbiondire una cipolla tagliata, aggiungere un battuto d'aglio e prezzemolo, lo scorfano e i pomodori a fette, salate e pepate. Quando la zuppa bollirà unite l'aceto e cuocete per 15', poi versate la zuppa su fette di pane disposte in una zuppiera.
 Ciambelle di Pasqua
Impastare uova, zucchero, olio, limone grattugiato e farina, mettere il mistrà, dividere l'impasto e date la forma di ciambella. Lessare le ciambelle in acqua bollente, poi scolatele su un canovaccio. Infornarle per 40' a 180 gradi, qui lieviteranno, assumendo un caldo colore biscotto
 Coniglio in porchetta
Disossare, pulire e marinare il coniglio; sgocciolatelo, lavatelo, asciugatelo. Tritate salvia, rosmarino, finocchietto e aglio, distribuitene metà sul coniglio, spolverizzate con pepe, adagiatevi il prosciutto e cospargetele con le erbe tritate. Arrotolate il coniglio, legatelo con lo spago; scaldate olio, burro, fatevi colorire il coniglio, evaporando con vino, aggiungere alloro, coprite e cuocete per 90'. Ritirare, raffreddare, eliminare lo spago, tagliare e servire.
Crescia sfogliata
Si impasta farina, uova, acqua, strutto, sale e pepe; ottenere una sfoglia unta con strutto non molto denso. Arrotolandola si ricava un lungo "bigolo", si lascia riposare, si schiaccia a forma di dischi. Cuocerli su pietra arroventate, togliendole non appena cominciano ad indorare.
Filetti d'orata con verdure e prosciutto
Tagliate a fiammifero il prosciutto e le verdure, rosolare il prosciutto in olio d'oliva, unire cipolle, zucchine, carote e porri, aggiungere acqua, sale, pepe e cuocere per 2'. Rosolare i filetti di orata già salati, girateli e finite la cottura: impattate il prosciutto con le verdure e disponetevi sopra i filetti di orata.
Funghi infornati
Pulite i funghi, tagliateli e metteteli in una pirofila. Mescolate un cucchiaino di rosmarino, il pangrattato, sale e pepe. Condite i funghi con l'olio e il composto. Cuocete in forno per 25'.
Lasagne all'ascolana
Rosolare e sfumare con vino, in olio e burro, carne macinata e interiora di pollo: preparate la pasta con farina, acqua e uova, fatela riposare, stendetela e tagliatela in tagliatelle; lessatele e scolatele. Stendetele in una teglia imburrata alternandole con la salsa preparata e formaggio grattugiato. Sopra versate tartufo grattato. Cuocere per 20'.
Pistingolo
Piatto della tradizione di Natale di Ancona, la ricetta prevede la cottura dello stoccafisso in un ricco soffritto con pomodori, acciughe, capperi e olive nere. Richiede 3 ore di ammollo, 3 ore di cottura, più il tempo per pulire lo stoccafisso,
Polpette di pesce
Sono croccanti polpettine aromatiche preparate con del buon merluzzo e arricchite con pane e con un trito di timo e prezzemolo. Sono piccole dimensioni e ottime da servire come antipasto, calde o tiepide, oppure nelle dimensioni di una classica polpetta da servire come secondo piatto.
Salsa di noci
Scottare e pelare i gherigli, pestarli in un mortaio con mollica inzuppata d'acqua e strizzata, pinoli, aglio e sale. Pestare e lavorare ottenendo una pasta omogenea, setacciarla e raccoglierla in una ciotola. Unirvi latte cagliato mescolato con olio e condire la pasta
Tajine di agnello

Pestare aglio e spezie; bollire carne, limoni canditi tagliati, olio e succo di limone, aggiungere aglio e spezie, cuocere per tre ore. Mezz'ora prima della fine della cottura, in un'altra pentola, versare olio d'oliva e dorare una cipolla, metterla sulla carne con le olive nere, finire la cottura e servire con riso.
MATELICA - I VINI -

Vino
Il vino è uno dei prodotti tipici di Matelica, a partire dal famoso Verdicchio, vitigno che, in tutto il mondo, cresce solamente nella valle dell'Esino.
Verdicchio di Matelica
È stato riconosciuto vino a DOC il 21 luglio 1967, per primo nelle Marche. La disposizione Nord-Sud della valle, la sinclinale camerte, impedisce l'arrivo degli influssi mitiganti marini generando un microclima mediterraneo-continentale caratterizzato da maggiori escursioni termiche dalla notte al giorno e dall'estate all'inverno. L'effetto di questo clima dà origine ad un'uva ricca di estratti, aromi primari, zuccheri e polifenoli, che si traduce poi in un vino dotato di un elevato corpo che conferisce una particolare attitudine all'invecchiamento. Il Verdicchio si presenta dal colore brillante, paglierino tenue, il profumo delicato con fragranze fresche e persistenti di frutta non completamente matura. Al sapore è asciutto, morbido, armonico, con retrogusto gradevolmente amarognolo. È presente anche in versione riserva, passito e spumante. Diverse volte si è classificato tra i primi bianchi d'Italia e d'Europa, negli appositi concorsi.
Esino bianco e rosso
Queste due DOC sono riconosciute in tutta la provincia di Ancona e nei territori del Verdicchio di Matelica. L'Esino bianco è composto da uve Verdicchio almeno al 50%, mentre il rosso da uve Sangiovese e Montepulciano almeno al 60%.
Colli Maceratesi bianco e rosso
Questa DOC è prodotta in tutta la zona collinare della provincia di Macerata. Il bianco è prodotto all'80% da uve maceratino, mentre il rosso con almeno il 50% di Sangiovese. Sono entrambi vini giovani e leggeri.
Esino
L’Esino Doc è nato da una costola di prestigiosi vini, quali i due verdicchi, i rossi Conero e Piceno, ed è entrato in produzione nel 1995. Quindi una denominazione d'origine controllata che è aggiunta a quelle tradizionali e che però si inserisce nel solco di tradizioni consolidate. Il legame storico tra la vite ed il territorio delimitato come Marca Anconetana inizia con l’arrivo dei monaci benedettini cui fanno seguito i camaldolesi che reintroducono e diffondono la vite ormai da secoli tradizionale. Sempre ai monaci sono da ricondursi le tecniche viticolo – enologiche, il migliormanto del prodotto e la sua conservazione. 
Questa Doc comprende quattro tipologie di vini: Esino Bianco, Esino Bianco Frizzante, Esino Rosso ed Esino Novello. Tutta la provincia di Ancona ed i territori della provincia di Macerata, delimitati dai disciplinari di produzione del Verdicchio di Matelica e del Verdicchio dei Castelli di Jesi, possono concorrere alla produzione della DOC Esino.
Vitigno
Bianco e Frizzante: min. 50% Verdicchio, possono concorrere altri vitigni a bacca bianca idonei alla coltivazione nella Regione Marche, congiuntamente o disgiuntamente, max. 50%; Rosso e Novello: min. 60% Sangiovese e/o Montepulciano, possono concorrere altri vitigni a bacca bianca idonei alla coltivazione nella Regione Marche, congiuntamente o disgiuntamente, max. 40%.
Tipologie
Esino Bianco
Esino Frizzante
Esino Rosso
Esino Novello
Calice e servizio
Per l'Esino Bianco il calice sarà semiovoidale, allungato verso il bordo a stelo slanciato e andrà servito ad una temperatura tra i 9 e i 12 °C. Per l'Esino Rosso è adatto un calice sferico e rastremato verso l'alto. Va servito ad una temperatura dai 16 ai 20 gradi.
Abbinamento con i cibi
La proposta di abbinamento tiene conto della struttura, dello stato evolutivo del vino e della tipologia dello stesso. Può essere considerato un vino a tutto pasto, nel senso che essendo sia bianco che rosso, oltre che frizzante e novello, la gamma degli abbinamenti è completa. I Bianchi si offrono a gustosi abbinamenti con il pesce, con carni bianche. Possono essere anche usati freschi come aperitivi.
Verdicchio di Matelica Riserva
Il Verdicchio di Matelica Riserva Bianco Docg è un vino bianco prodotto nelle Marche dove il Verdicchio ha trovato maggiormente un clima ideale per la sua maturazione. Il Verdicchio di Matelica è prodotto nella valle dell'Esino, più precisamente, in provincia di Ancona, in parte del territorio dei comuni di Cerreto d'Esi e Fabriano, in provincia di Macerata, in parte del territorio dei comuni di Camerino, Castelraimondo, Esanatoglia, Gagliole, Matelica e Pioraco. A differenza del Verdicchio dei Castelli di Jesi in questo caso la tradizione contadina non  ha potuto essere d'aiuto per ottenere un prodotto caratteristico: il vino che veniva prodotto e imbottigliato nella zona di Matelica precedentemente alla DOC era volto solo a vuotare le cantine con le inevitabili conseguenze sulla qualità. Oggi invece anche grazie al lavoro di enologi e produttori motivati ed esperti si è riusciti a ottenere un vino importante con delle caratteristiche distintive della terra di Matelica, uscendo quindi dall'ombra del Verdicchio dei Castelli di Jesi. Nel 2009 arriva infine la D.O.C.G. per il Verdicchio di Matelica Riserva. 

Questo verdicchio ha anch'esso una lunga tradizione e documenti d'epoca rivelano che è sempre stato molto apprezzato. Lo sposalizio d'elezione di questo vino è con i piatti di pesce della cucina marchigiana.
Vitigno
Verdicchio, presente in ambito aziendale, per un minimo dell’85%. Possono concorrere altri vitigni a bacca bianca, presenti in ambito aziendale, idonei alla coltivazione nella regione Marche, congiuntamente o disgiuntamente per un massimo del 15%.
Tipologie
Verdicchio di Matelica Riserva
Calice e servizio
Per apprezzarne a pieno struttura e morbidezza va Servito alla temperatura di 8-10 °C in calici di medie dimensioni.
Abbinamento con i cibi
Può essere utilizzato come aperitivo o abbinato a piatti di pesce o a primi piatti con condimenti vegetali o di mare. Si accompagna spesso a zuppe di pesce e a pesci al cartoccio o al forno; è ottimo anche con le carni bianche.

Castelli di Jesi Verdicchio Riserva
Il Verdicchio è un vitigno considerato autoctono delle Marche: le prime testimonianze della sua coltivazione risalgono al XVI secolo. Recentemente, l'analisi genetica ha evidenziato una parentela molto stretta tra il Verdicchio e il Trebbiano di Soave: si è dunque ipotizzato che il verdicchio sia stato introdotto nelle Marche da coloni veneti, giunti alla fine del Quattrocento per ripopolare le campagne dopo un'epidemia di peste. Cupramontana è considerata la capitale del Verdicchio. Il grappolo è di media grandezza, abbastanza compatto, di colore giallo-verde con buccia consistente, pruinosa e sottile (anche se alcuni cloni hanno la buccia più spessa). È poco resistente alle crittogame (vedi oidio e botrite) e la produzione è vigorosa e costante con maturazione medio tardiva. 

La zona di produzione, poco distante dal mare, è composta da colline che arrivano a  500 metri di altezza, da fiumi quali l’Esino, il Musone ed il Misa che scorrono nelle valli ed è impreziosito da cittadelle fortificate. La collocazione ideale della vite è sulle assolate colline, rinfrescate dalla costante ventilazione che arriva dall’Adriatico e che impedisce il formarsi di umidità sui grappoli e sono formate da terreni argillosi e calcarei ricchi di limo e sabbia con banchi di salnitro.

ll Castelli di Jesi Verdicchio Riserva, che ha ottenuto il riconoscimento DOCG nel 2011,  viene prodotto, nella provincia di Ancona, nei comuni di Arcevia, Barbara, Belvedere Ostrense, Castelbellino, Castelplanio, Corinaldo, Cupramontana, Maiolati Spontini, Mergo, Montecarotto, Monte Roberto, Morro d'Alba, Ostra, Poggio San Marcello, Rosora, San Marcello, San Paolo di Jesi, Senigallia, Serra de' Conti, Serra San Quirico e Staffolo, in provincia di Macerata, nei comuni di Apiro, Cingoli e Poggio San Vicino.
Vitigno
Anche classico: min. 85% verdicchio, possono concorrere altri vitigni a bacca bianca, presenti in ambito aziendale, idonei alla coltivazione nella Regione Marche, congiuntamente o disgiuntamente per un massimo del 15%.
Tipologie
Castelli di Jesi Verdicchio Riserva
Calice e servizio
Il calice a forma semiovoidale allungato verso il bordo, sottilissimo, incolore, a stelo slanciato, consente di esprimere al meglio profumi (di frutta e fiori) del vino, presenti in gioventù. Va servito ad una temperatura di 10-12 °C. Se degustato come aperitivo, la temperatura ottimale è di 8-10 °C.
Abbinamento con i cibi
Si abbina alla cucina marinara: antipasti di pesce anche crudo, paste/risotti/zuppe di pesce, grigliate miste di pesce, pesce arrosto in particolare pescatrice, rombo, spigola. Accompagna anche le carni bianche, in particolare il coniglio.
Colli Maceratesi
Nella zona tra lo Jesino e il Fermano (una zona che comprende tutti i Colli Maceratesi) i vigneti sono notevolmente compositi; tanto è vero che esistono molti tipi di vini elogiati dagli esperti. Il Colli Maceratesi Doc è il risultato di un lungo ed ininterrotto processo di trasformazione e trasmigrazione. Il territorio, terminata la presenza dell’Impero Romano, verrà assegnato alla Chiesa che dà inizio al 7 Potere Temporale del Papato. La sua influenza viene rafforzata dall’insediamento nel territorio di potenti Ordini monastici nelle numerose Abbazie tuttora presenti ed alcune ancora operanti nella sfera religiosa. In questa nuova dimensione della vita associata si deve ai monaci abbaziali la rinascita dell’attività agricola che introduce la conduzione economica della terra compresa la gestione delle vigne e la trasformazione vinicola. Nel periodo rinascimentale la vite riprende un suo ruolo nell’economia rurale e nella società. Lo sviluppo del rapporto mezzadrile vede nell’area maceratese la sua massima espressione e lega il capitale ed il lavoro allo sviluppo rurale del territorio. I mezzadri, i coltivatori diretti, per soddisfare l’autosufficienza alimentare, hanno piantato vigneti per avere il “vino di casa” ovunque e le viti sono state allevate nelle forme atte a produrre quantità, trascurando la qualità. Sorge così quella viticoltura promiscua di piano e di collina, oggi sostituita dalla coltura specializzata. La scomparsa della mezzadria reca con sé anche la modifica delle sistemazioni arboree non più compatibili con la moderna agricoltura e, pertanto, superate. Fino all’inizio del ‘900 la gamma dei vitigni allevati era estesa e disparata ma con il rinnovo degli impianti viene effettuata una selezione verso le varietà piene di tradizione e di qualità. In questo quadro i produttori sono stati indotti a passare ad un vino da monovitigno per cui prende interesse nel territorio il vitigno Maceratino cui fa seguito la richiesta della denominazione così che le strutture di trasformazione vinicola nel territorio si espandono venendo meno quella forma di vinificazione “casalinga” conseguente alla ripartizione del prodotto al 50% tra proprietà e mezzadro. Il comprensorio collinare maceratese, al di sotto di 450 metri di altitudine, esclusi fondovalle e zone di pianura, ospita sulle zone più vocate, al riparo dai venti del sud e dai ritorni di gelo primaverili del nord, gli impianti viticoli del vino Colli Maceratesi. La zona di produzione comprende, in provincia di Ancona, i terreni vocati alla qualità che ricadono nel comune di Loreto, in provincia di Macerata, i terreni vocati alla qualità che ricadono nell'intero territorio della provincia di Macerata. Il Colli Maceratesi viene prodotto nelle tipologie Bianco (anche Passito e Spumante), Ribona (anche Passito e Spumante), Rosso (anche nelle tipologie Novello e Riserva), Sangiovese.
Vitigno
Bianco, Spumante, Passito: min. 70% Maceratino (Ribona o Montecchiese), max. 30% Incrocio Bruni 54, Pecorino, Trebbiano toscano, Verdicchio, Chardonnay, Sauvignon, Malvasia bianca lunga, Grechetto per la sola provincia di Macerata, da soli o congiuntamente, possono concorrere altri vitigni, non aromatici, a bacca bianca idonei alla coltivazione nella regione Marche max. 15%; con menzione del vitigno bianco (anche Spumante, Passito): Ribona min. 85%, possono concorrere altri vitigni a bacca bianca idonei alla coltivazione nella Regione Marche max. 15%; Rosso, Riserva, Novello: Sangiovese minimo 50%, Cabernet franc, Cabernet sauvignon, Ciliegiolo, Lacrima, Merlot, Montepulciano, Vernaccia nera, congiuntamente o disgiuntamente, max. 50%; possono concorre altri vitigni a bacca nera, non aromatici, idonei alla coltivazione nella regione Marche max. 15%;  con menzione del vitigno rosso: Sangiovese min. 85%, possono concorre altri vitigni a bacca nera, non aromatici, idonei alla coltivazione nella regione Marche, congiuntamente o disgiuntamente, max. 15%.
Tipologie
Colli Maceratesi Bianco
Colli Maceratesi Bianco Passito
Colli Maceratesi Bianco Spumante
Colli Maceratesi Ribona
Colli Maceratesi Ripona Passito
Colli Maceratesi Ribona Spumante
Colli Maceratesi Rosso
Colli Maceratesi Rosso Novello
Colli Maceratesi Rosso Riserva
Colli Maceratesi Sangiovese

Calice e servizio
8-10 °C per il bianco, 15-16 °C per il rosso, in calici sottili da degustazione.
Abbinamento con i cibi

Il Colli Maceratesi bianco si propone per esaltare il gusto di molluschi bivalvi crudi a tendenza dolce e poco grassi, di riso e minestre con salse bianche ricavate da molluschi, crostacei, pesci, vegetali ed altre componenti delicate. Si accosta anche a carni bianche di animali di bassa corte in elaborazioni culinarie e cotture leggere. Vino caldo, ma non eccessivamente impegnativo, il colli Maceratesi rosso si presta a svariati abbinamenti, dai salumi alla pizza con formaggio, dai vincisgrassi ai piatti a base di carne bianche, come il coniglio in porchetta o il pollo in casseruola.
MATELICA - Peculiarità matelicesi
Chi percorre, camminando o correndo, sette giri intorno alla fontana di piazza Enrico Mattei, sotto la supervisione di un addetto dell'Associazione Pro Matelica, viene premiato con la Patente da mattu. Tale tradizione deriva da un'antica legge degli Ottoni, che obbligava tutte le persone andate in fallimento a fare dodici giri intorno alla fontana gridando: «Io ho ceduto alli miei beni et per questo nisiuno mai più me creda».
« Se a Matelica chiudessero le porte, sarebbe un manicomio »
(Sisto V)
Il vicolo Orfanelle, nel Centro Storico, è conosciuto dai più come vicolo Basciafemmine, ovvero baciafemmine. La sua natura tortuosa permetteva, infatti, di appartarsi non visti.
I soprannomi hanno avuto un'importante funzione in paese, identificando persone o intere famiglie. Spesso non sapere il soprannome della propria famiglia significava l'impossibilità di essere identificato dagli altri. I soprannomi erano personali, come quello di un barbiere dalla mano poco ferma detto Brodoló, o di intere famiglie: così chi è soprannominato Bajóccu non sarà mai un Valentinéllu o un Masció, nonostante lo stesso cognome.
Le quattro statue che gettano acqua nella fontana di piazza Enrico Mattei sono posizionate in direzione dei punti cardinali e i matelicesi hanno dato loro affettuosi soprannomi: La Sirena a nord, Maccagnano a est, Biutino a sud e La Veloce a ovest.
Festival Internazionale del Folklore

Uno degli eventi principali dell'estate matelicese è il Festival Internazionale del Folklore. Nato dall'esigenza dell'Associazione Folklorica "Città di Matelica" di realizzare scambi culturali con altre formazioni italiane o straniere, esso rappresenta un momento di incontro tra culture e religioni diverse, unite in un grande spettacolo di suoni e di colori, un appuntamento con le danze e le voci di tutto il mondo. Il Festival, organizzato dall'Associazione Folklorica "Città di Matelica", con la partecipazione del Comune di Matelica, della Regione Marche e della Comunità Montana Alte Valli del Potenza e dell'Esino, e la collaborazione dell'Associazione Pro Matelica, si tiene ogni anno tra la fine di luglio e l'inizio di agosto, e si svolge nell'arco di sei serate, durante le quali gruppi provenienti da diverse parti del mondo si esibiscono in balli e canti tradizionali. Oltre agli spettacoli, i visitatori possono sostare negli stand gastronomici e assistere a una serata di teatro dialettale. Di solito viene anche allestita una piccola mostra dell'artigianato. Il Festival del Folklore è un evento di notevole valenza socio-culturale e un momento di integrazione e di scambio tra popoli ed etnie portatrici di usi, costumi e tradizioni differenti fra loro, e rappresenta un valido modo per far apprezzare e mantenere vive le antiche tradizioni e le culture dei vari popoli.
MATELICA - Monumenti e Luoghi d'interesse

Monumenti e luoghi d'interesse
Architetture religiose
Concattedrale di Santa Maria Assunta
Chiesa della Beata Mattia. Costruita nel 1255, dell'antica fattura non rimane più nulla; il più antico segno è il campanile, databile nel XV secolo, mentre sono evidenti gli interventi ristrutturali operati nel tempo, che hanno dato alla chiesa uno stile barocco, quasi rococò. Ad essa vi è annesso il monastero delle clarisse più antico di Matelica, e anche il più famoso per il ricordo della Beata Mattia Nazzarei (1253-1320), che lì visse santamente. Il monastero e la chiesa vantano tele di pregevole esecuzione. Particolarmente apprezzabili sono la Croce del XIII secolo, dipinta da un anonimo marchigiano, una Madonna col Bambino di fine XIII secolo e un'altra del XV secolo attribuita al cosiddetto Maestro della Culla, appartenente alla cerchia di Gentile da Fabriano. Sotto l'altare della chiesa si conserva e si venera, ancora oggi, il corpo della Beata Mattia.
Chiesa di San Francesco. Sorge sulla piazza omonima. L'edificio primitivo (1240-'60) era in stile romanico, come si arguisce dal portale e dalla trifora, ora nascosta dietro l'attico. L'attuale prospetto, rimaneggiato e incompleto, risale alla prima metà del sec. XVIII, mentre la scalinata è del 1970. Nell'atrio del muro, a destra, c'è una piccola lapide, con figura in rilievo di un ecclesiastico in paramenti sacri e con le braccia allargate. La scritta sopra il capo (S: DOPI: LAPI) è interpretata: SIGNUM DOMINI LAPI (Sigillo del signor Lapi) e questo rappresenterebbe un abate dell'antico Monastero di Roti, nei pressi di Braccano. Giovanni Serodine, già negli anni 1623-1625, fu attivo nella decorazione pittorica e in stucco della cappella Mozzanti. Nell'interno, la navata, in leggero barocco (prima metà del Settecento), s'impone per affascinante grandiosità e per notevoli opere d'arte: confessionali in noce a colonnine tortili del Seicento, Viae Crucis, eseguite tra il 1740 e il 1750, medaglioni dei primi decenni dell'Ottocento, attribuiti al francescano padre Antonio Favini (1749-1843), una tela di Marco Palmezzano del 1502 (Madonna col Bambino sul trono). Sulle pareti del coro, interessanti frammenti di affreschi di scuola giottesco-marchigiana con Storie della vita di san Francesco.
Chiesa del Suffragio o delle Anime purganti. Con la sua mole proporzionata ed elegante, domina la piazza Enrico Mattei, completandone l'armonia tra gli edifici che la contornano. Sorse nel 1690 con le offerte dei cittadini sull'area di una chiesa più antica dedicata a San Sebastiano, patrono della città. Fu consacrata nel 1715. A croce greca, nella sua misurata eleganza racchiude dei buoni quadri, tra cui il Crocifisso ed Anime Purganti di Salvator Rosa. Nella cappella a sinistra è collocata una statua di San Sebastiano,di fattura rinascimentale, datata 1585. In sagrestia vi sono due quadri con parti napoletane, databili alla fine del Seicento, e raffiguranti la Madonna con S. Francesco di Paola il primo e la Madonna e Santi il secondo, un tempo collocati sugli altari laterali della chiesa. Merita considerazione anche un'immagine della Madonna della Misericordia, posta su un antiestetico ornamento, un tempo oggetto di particolare devozione. L'organo, di modeste proporzioni, è opera del Fedeli.
Chiesa di Sant'Agostino. Risale al XIV secolo; la facciata si orna di un ricco portale romanico, inclinato in avanti, unico resto della primitiva costruzione. L'interno, rinnovato nel XVII secolo, è a pianta basilicale a tre navate su pilastri, sovrastato da cupoletta. Nel presbiterio, a destra, Noli me tangere, tela di Ercole Ramazzani; a sinistra, Cristo sotto il torchio, tela seicentesca d'ignoto, d'eccezionale iconografia. In fondo alla navata sinistra, Madonna col Bambino e santi, tela del Ramazzani, firmata e datata 1588; sull'altare del transetto sinistro, Estasi di San Francesco attribuita al Guercino; al terzo altare sinistro, Crocifisso ligneo intagliato del XV secolo.
Chiesa di San Filippo. Fu edificata a metà del XVII secolo per generosità del matelicese Ottaviano Grassetti nei confronti dei Padri Filippini che, giunti a Matelica nel 1640, vivevano in stretti e vecchi spazi. L'esterno della facciata si presenta in mattoni con richiami borrominiani; il prospetto posteriore presenta un luminoso e vivace punto di vista architettonico. Tutti gli elementi d'eccessivo barocchismo sono opera del primo restauro effettuato un secolo dopo la sua prima costruzione. All'interno si trova il pregiatissimo Crocifisso, proveniente dalla vicinissima Chiesa di San Giovanni, opera quattrocentesca di scultura lignea. In onore di quest'ultimo si svolgono a Matelica le Feste Triennali, durante le quali si venera il Crocifisso che è portato di sera in sera in tutte le chiese matelicesi. Altre pregevoli opere presenti nel tempio sono un San Filippo, già sull'altare maggiore, che adora la Vergine di Emilio Savonazzi (1580-1660), la Madonna dello Scalpore e altre pitture di scuola romana del Seicento e de Settecento. Inoltre, prezioso è il capolavoro di Pierleone Grezzi, di cui si conserva, nel Museo Piersanti, una stampa del 1725 illustrante il Concilio Lateranense, relativo al miracolo di San Filippo, raffigurante il cardinale Orsini salvato dal terremoto.
Chiesa di Santa Teresa. Risale alla metà del XVII secolo (la sua costruzione è durata dal 1695 al 1712). Dopo un testamento, divennero proprietari i Carmelitani Scalzi, grazie alla rinuncia dei Gesuiti al fine di smentire a loro danno a seguito dell'uccisione del benefattore Conte Pellegrini. Nel 1823 la chiesa passò ai Padri Filippini, quindi nel 1842 ai Silvestrini che, tuttora, ne hanno il possesso. La chiesa è di stile barocco. Di buona mano è la tela dell'altare; pregevoli sono anche due preziose tavole, esposte in sacrestia, attribuite a Ludovico Urbani. Dopo il terremoto del 27 settembre 1997, fu restaurata negli anni 2001-2002 e inaugurata solennemente il 15 ottobre.
Chiesa di San Rocco. Poco distante dall'ormai demolita Porta della Valle, sorse nel 1529. Le ridotte dimensioni la qualificano immediatamente come cappella votiva edificata dalla comunità per impetrare l'allontanamento della peste. L'impianto planimetrico è a croce greca con un soffitto a crociera composita stellare. Un recente restauro ha eliminato la tinteggiatura scoprendo il mattoncino con un procedimento che, se esalta le caratteristiche strutturali del tempietto, non rispetta molto la realtà storica dell'edificio, che appartiene al secolo XVI. Modificato dunque l'interno nelle sue caratteristiche coloristiche, rimane interessantissima la struttura esterna, dalla quale traspare la dinamica costruttiva dell'insieme: un cubo inserito in un impianto a croce greca. Ne deriva una scansione tripartita dei muri perimetrali in profondità, scansione ripetuta su tutte e quattro le fronti del tempio. Si qualifica dall'esterno come struttura organicamente articolata nell'ambito di un sistema composto che prevede una forte spinta dinamica all'interno di un telaio rigidamente geometrico.
Chiesa di Regina Pacis. Voluta fortemente dal Parroco Franco Paglioni, e progettata dall'architetto Piero Sampaolo, la chiesa è stata consegnata ai propri fedeli l'8 dicembre 2000. La sua struttura è completamente in cemento armato, l'esterno è in mattoncino e il tetto in legno.
Monastero di Santa Maria Nuova. Sorge appena fuori delle mura castellane, dalla parte del quartiere della Vecchia. La chiesa fu completamente ricostruita nei primi decenni del secolo XVIII, utilizzando, però, gli elementi d'arredo sacro della chiesa precedente. In questo modo si è salvato, ed è tuttora visibile, il prezioso altare ligneo attribuito a Paris Scipione. Il monastero fu trasformato in Ospedale per invalidi nel 1870 e ancora oggi ospita una Casa di Riposo per anziani.

Architetture civili
Palazzo comunale. L'edificio, di proprietà della famiglia Scotti di Narni, parenti stretti degli Ottoni, fu acquistato dal Comune di Matelica nel 1606 per avere uffici più funzionali. Al momento dell'acquisto, il palazzo presentava gravi danni alle strutture principali, che mettevano in serio rischio la sua stabilità e la sua permanenza nella piazza principale. Solo alla fine del secolo XIX, dopo un duro lavoro di noti architetti, il palazzo divenne una realtà stabile e sicura. All'interno del palazzo si possono ammirare la lapide di Caio Arrio e una tela raffigurante Sant'Onofrio di Salvatore Rosa. Sotto lo stemma del comune è rappresentata la vergine lauretana protettrice della città. Inoltre, il comune vanta anche il possesso di una raccolta di disegni del ritrattista matelicese Raffaele Fidanza (1797-1846).
Palazzo del Governatore o dei Pretori e Torre civica. Il nome nacque dalla residenza nel palazzo, costruito su ordine di Ottone IV, del Luogotenente imperiale. Molte sono state le ristrutturazioni, sicuramente non tutte rispettose dello stile originario, ma ciò nonostante il palazzo offre alla piazza principale una nota positiva in più. Accorpata all'edificio è la Torre Civica, la cui base, per alcuni, potrebbe essere contemporanea dell'edificio, mentre per altri potrebbe risalire a un'epoca antecedente il 1175. La torre fu sopraelevata alla fine del XV secolo e successivamente, nel 1893, fu allargata alla base per problemi di stabilità.
Palazzo Ottoni. Fu costruito nel 1472, per conto di Alessandro e Ranuccio Ottoni, dagli architetti Costantino e Giovan Battista da Lugano. Il palazzo rinascimentale è antistante la Piazza Enrico Mattei e contribuisce a renderla originale per la pluralità stilistica degli edifici che la circondano. Sul retro è presente un cortile che, tramite una loggetta aerea ancora presente, lo collegava a un'altra proprietà della famiglia.
Teatro comunale "Giuseppe Piermarini". Risale al 1805. La sua struttura è a palchetti, tre ordini più il loggione; ha un aspetto molto elegante. La progettazione si deve al celebre Giuseppe Piermarini, che fu architetto della Scala di Milano, mentre le decorazioni pittoriche, databili tra il 1810 ed il 1812, sono da attribuire al pittore Spiridione Mattei. Presso il teatro si conservano reperti archeologici relativi a resti d'abitazione dell'età del ferro e a un impianto termale d'epoca romana (I-II secolo d.C.). Il teatro è stato inaugurato nel 1812 col l'esecuzione di tre melodrammi, Ser Marcantonio di Stefano Pavesi, Oh, che originale di Giovanni Simone Mayr e Il filosofo sedicente di Giuseppe Mosca. Oggi ospita la stagione teatrale della città e molti altri eventi. Nel suo foyer, recentemente rinnovato, ha sede un'enoteca del Verdicchio di Matelica, che promuove il premiatissimo vino.

Il globo di Matelica
Globo di Matelica. Il Globo di Matelica è una sfera di marmo bianco cristallino scoperta nel 1985 e rappresenta un singolare modello di orologio solare giunto a noi dall'antichità. Il marmo con cui è stato realizzato è greco e proviene forse dalla cava di Afrodisias (zona di Efeso), oggi Turchia. Si tratta di un marmo particolare, composto da grossi cristalli, che luccicano quando sono esposti ad una fonte di luce. La sua circonferenza misura 93 cm, molto vicina a quella di due "cubiti fileterei" (un cubito filetereo corrispondeva a 46,83 cm), da cui si ricava il diametro che è di 29,6 cm, che, guarda caso, corrisponde esattamente a quella di un "piede attico". La sfera è divisa esattamente a metà da un'incisione, allo stesso modo di come l'equatore divide la Terra. L'emisfero superiore è a sua volta diviso a metà da un altro solco, che interseca un foro, situato approssimativamente sulla sommità del Globo, e il centro di tre cerchi concentrici (calotte sferiche) di vario diametro. Queste tre circonferenze sono a loro volta intersecate al proprio centro da un arco di cerchio avente il raggio di misura uguale a quello più grande. Attorno a queste circonferenze sono ancora visibili delle parole incise in antico alfabeto greco; sulla sommità dell'emisfero superiore sono presenti tredici fori, di cui tre, quello sommitale e i due posti lungo il solco che divide a metà il Globo, hanno un diametro superiore agli altri. Accanto a ogni foro sono state incise altrettante lettere dell'alfabeto greco antico. Infine, nella parte inferiore del Globo è stata scavata una depressione conica terminante in un grosso foro rettangolare, che serviva a fissare la sfera su una base. Il Globo è costruito per funzionare a una latitudine di circa 43º, come quella di Matelica, e di conseguenza esso è stato creato proprio per la città. Perché sia stato fatto, da chi, e come mai i greci si siano interessati tanto a Matelica resta un mistero.

Murales a Braccano
Murales di Braccano. A Braccano, la più grande frazione del comune, posta sulla strada che da Matelica giunge al Monte San Vicino, sono presenti dei murales. Essi, di origine recente, voluti dall'amministrazione comunale, sono stati eseguiti dagli allievi delle accademie di Brera, Urbino e Macerata sui muri esterni delle case, delle stalle e dei fienili presenti nella frazione. Ad oggi sono presenti oltre cinquanta murales, dipinti in tempi diversi.
Musei
Museo Piersanti. Fiore all'occhiello della città, è uno dei più belli della regione. Affonda la sua origine nel sec. XVII, allorché mons. Venanzio Filippo Piersanti, nato a Matelica nel 1688, iniziò all'interno del suo palazzo una raccolta d'oggetti d'alto valore storico-culturale e artistico. Il palazzo è donato, nonostante tutto quello che esso già abbondantemente e di notevole valore conteneva, grazie a un testamento nel 1901, per opera della marchesa Teresa Capaci Piersanti, al Capitolo e alla Cattedrale di Santa Maria. Tutti gli oggetti contenuti nel palazzo avevano in comune solo il carattere della pregevolezza, spaziando in ogni campo e settore, dalla pittura alla scultura, dall'artigianato alla stampa, e molto altro. È per quest'accostamento irrazionale d'opere e d'oggetti, anche pezzi archeologici, che il museo ha acquistato una caratteristica e un'originalità del tutto proprie e interessanti. Con il passare degli anni il museo si è gradualmente arricchito di tele, pitture e sculture, grazie all'apporto di varie chiese locali, delle Confraternite, del Comune e, di recente, per il dono del pittore locale Diego Pettinelli, consistente in centoquindici pastelli con vedute di Matelica, e con un campionario di stoffe e di merletti di gran valore appartenenti alla famiglia Murani Mattozzi di Matelica, di alcuni abiti di Seicento, Settecento e Ottocento. Negli ultimi anni è stata aperta al pubblico la nuova Stanza degli argenti. Il museo si presenta lungo un itinerario comprendente tre sale a piano terra e ben sedici al primo piano, e ospita anche diverse curiosità; tra queste, le stanze del palazzo legate più alla quotidianità, dalla cucina ai locali per la vinificazione: se il frantoio è andato perso, le cantine con relative attrezzature hanno conservato l'assetto originario. Mancano molti oggetti d'uso quotidiano, di cui un meticoloso inventario redatto nel 1763 fornisce tuttavia interessante testimonianza. Oltre agli oggetti da cucina, agli attrezzi per realizzare insaccati suini e a quelli per fare il pane, sono inventariati, sempre in un registro settecentesco, i capi di bestiame allevati nelle fattorie.

Museo archeologico. Il museo è allestito all'interno di Palazzo Finaguerra, edificio storico, ubicato nei pressi del complesso monumentale di San Francesco. Il palazzo risale, nel suo aspetto attuale, a un periodo che va dalla fine del XVIII all'inizio XIX secolo, periodo in cui sono state realizzate anche le decorazioni pittoriche degli ambienti del primo e del secondo piano. Il museo espone reperti archeologici provenienti da Matelica e dal suo comprensorio; questi coprono un arco cronologico piuttosto ampio, che va dalla Preistoria fino al Medioevo e all'età rinascimentale. Particolarmente rappresentata è la fase relativa alla civiltà picena, con i ricchi corredi delle tombe di VIII-VII secolo a.C. Di particolare rilievo sono le tombe della fase "orientalizzante" (fine VIII-inizio VI secolo a.C.). Di eccezionale interesse, anche per la sua rarità, è l'orologio solare sferico in marmo con iscrizioni in greco, noto come Globo di Matelica, datato tra il I e il II secolo d.C.

MATELICA
Origini e storia romana
Le origini della città di Matelica risalgono al Paleolitico. Gli umbri, popolazione indoeuropea, già nel 2000 a.C. si erano stanziati nella valle del fiume Esino, dove sorge la città. La nascita vera e propria del centro abitato è fatta risalire all'incontro delle popolazioni umbre con quelle picene. I piceni, popolo proveniente dall'Abruzzo e dall'ascolano, costruirono il primo centro abitato vero e proprio, sfruttando i già presenti insediamenti primigeni.
Con l'arrivo dei Romani, la città subì un rapido cambiamento; dopo la battaglia del Sentino (295 a.C.), svoltasi a pochi chilometri da Matelica, la città fu assoggettata ai nuovi conquistatori. Le terre contigue alla città furono spartite tra i legionari veterani e ci fu un rapido processo di romanizzazione di tutta la zona.
Dopo la guerra sociale, la cittadinanza romana fu estesa prima ai Latini, poi agli Umbri e in seguito a tutta la penisola; nel 70 a.C. Matelica divenne municipio Romano, costruendo la propria struttura politica sulla riga di quella dell'Urbe: comandata da un duumviro, coadiuvato da cinque censori e da un Protettore che difendeva i diritti della città presso Roma.
Matelica fu iscritta alla tribù Cornelia e nel 101 d.C. la città ospitò l'imperatore Traiano in partenza per la Dacia da Ancona. In seguito, il generale Caio Arrio Clemente, che aveva visitato la città a seguito dell'imperatore, sarà nominato Curatore del municipio.
Con l'avvento della cristianità sull'impero, Matelica fu sede vescovile sin dal 400 d.C. Il vescovo rimase l'unica autorità dopo la caduta dell'impero: la città si ritrovò soggetta a incursioni dei barbari e la popolazione soffrì la fame per le carestie e le invasioni. Nel 552 la battaglia tra Totila e Narsete a Gualdo Tadino fu decisiva per il futuro della città. La sconfitta dei goti fece fuggire il loro re, che arrivò a Matelica dove morì e fu sepolto. I bizantini che lo inseguivano raggiunsero la città e la annessero al loro impero. Fino all'invasione dei Longobardi, la città visse un piccolo periodo di pace e prosperità. I nuovi invasori, sconfitti i bizantini, la distrussero nel 578 d.C. Da quel momento la città passò sotto la diocesi di Camerino.
Alto Medioevo
Con l'arrivo dei Franchi, la città fu ricostruita e, dopo l'800 d.C., come molte altre città, fu assoggettata a dei Conti, che rappresentavano l'imperatore del Sacro Romano Impero e poi il re d'Italia. La città, pur se formalmente sotto il dominio della Santa Sede, fu incorporata nella Marca di Ancona e soggetta quindi al potere imperiale. Il più famoso di questi, il conte Attone, guidò, nel 964 d.C., una parte delle truppe di Ugo re d'Italia contro quelle del Duca di Spoleto, Ascaro, presso Camerino, dove entrambi persero la vita.
Il comune (1100-1200)
Piazza Enrico Mattei, la loggia adiacente al Palazzo del Governatore.
Quando l'Imperatore Federico Barbarossa tornò in Germania, Matelica si ribellò all'impero e scacciò i conti Ottoni, famiglia con capostipite il conte Attone di cui sopra, e si costituì libero comune, sorretto da due consoli di origine nobiliare. Il ritorno dell'imperatore in Italia provocò nuove guerre nella Marca e l'Arcivescovo di Magonza Cristiano, fedele al papa Alessandro III, rase al suolo la città nel 1174. La comunità, però, venne a patti con i figli del conte Attone, che giurarono fedeltà e si impegnarono a proteggerla; in questo modo la città fu ricostruita, grazie anche all'appoggio dell'Imperatore Federico II di Svevia, pacificatosi con il papa nel 1185. Il conte Attone (discendente del conte di cui sopra) non si arrese e, sfruttando la volontà di espansione della vicina Camerino, costruì una lega tra questa e i comuni di Fabriano, San Severino, Tolentino, Cingoli, Recanati e Civitanova. Attaccati da nord e sud,i matelicesi furono sopraffatti e la città distrutta per la terza volta nel 1199. Gli abitanti furono dispersi e vissero fuggiaschi tra i vari monti della zona. Appellatisi all'imperatore Ottone IV, nel 1209, ottennero il permesso di ricostruire la città e, grazie al forte potere militare di Francesco d'Este, nominato curatore della Marca di Ancona, vi riuscirono. Dopo la ricostruzione, il paese era stato chiamato Nuovo Castello di Sant'Adriano, ma il vecchio nome tornò presto in auge. Le lotte con gli altri comuni limitrofi continuarono per tutto il tredicesimo secolo: diverse volte i matelicesi si scontrarono con Fabriano e, soprattutto, con Camerino, mentre una forte alleanza fu stretta con San Severino. Nel 1259, dopo una provocazione di Camerino, i matelicesi presero posizione tra i Ghibellini a favore di Manfredi e, con le truppe di questi, comandate da Percivalle Doria, distrussero la città, vendicando la distruzione di sessanta anni prima. Matelica si dichiarò eternamente fedele al Re e, alla morte di questi, non esitò a imprigionare un ambasciatore papale pur di mantenere la parola. Clemente, allora, tassò la città pesantemente, pena la distruzione, e obbligò i matelicesi ad accettare un Podestà di nomina papale. Sotto le pesanti gabelle, la città si impoverì rapidamente, contraendo debiti con gli altri paesi. Nel 1273 i matelicesi furono costretti a creare una truppa per soffocare la rivolta antipapale a Jesi, e per i successivi trent'anni combatterono quasi incessantemente con la vicina Camerino per la costruzione di castelli, per ridefinire i confini e per la volontà di questi di vendicarsi della distruzione subita.

Trecento
Nei primi anni del Trecento, Matelica stipulò un'alleanza di natura militare e amministrativa, sotto la supervisione del governatore pontificio, con le città di Fabriano, Camerino e San Severino. Le quattro contraenti si impegnavano a prestarsi reciproco soccorso e aiuto, oltre a rispettare gli editti delle altre. Ciò non impedì alcune scaramucce, ma la rinnovata pace permise alla città di poter dedicarsi più volte alle rivolte intestine allo Stato della Chiesa, schierandosi talvolta con i Guelfi e talaltra con i Ghibellini. Il Comune era retto, oltre che dal Podestà, dal Capitano del Popolo e dal Consiglio degli Anziani; al governo della città partecipavano dei Rettori e dei Consiglieri delle varie corporazioni artigianali costituenti il nucleo principale del Consiglio cittadino. Esse erano nove: Notari, Mercanti, Calzolai, Fabbri, Tornitori, Lanaiuoli, Falegnami, Sarti e Muratori. In questo periodo si formarono le Società e Compagnie d'Armi, per la difesa e la sicurezza della città. Nel frattempo, gli Ottoni si ristabilirono a Matelica e iniziarono a intromettersi sempre più profondamente nella vita politica.

La signoria degli Ottoni
Loggetta degli Ottoni
Alla fine del Trecento il vicariato della città fu affidato dal papa Bonifacio IX agli Ottoni. Questa famiglia, in un primo tempo, lasciò invariata la struttura comunale, per poi lentamente sopprimerla e accentrare tutti i poteri su di essa. Gli Ottoni Iniziarono una riforma fiscale, promossero lo sviluppo dell'industria della lana, della tintoria e della concia, restaurarono le mura, costruirono il campanile della cattedrale, soprattutto sotto la guida di Alessandro Ottoni, e tentarono più volte di definire una volta per tutte i confini con San Severino e Camerino. All'inizio del sedicesimo secolo ampliarono pure i commerci e le strade, tanto che si potevano contare ben centodieci mercanti in città. Alcune scelte di natura ecclesiastica, però, irritarono il popolo e con la signoria di Anton Maria Ottoni iniziò il malcontento generale, dovuto soprattutto all'eccessiva crudeltà e tirannia di quest'ultimo, che non esitava a incarcerare e uccidere i suoi avversari politici. A causa della condotta tirannica, i rapporti con i matelicesi si erano fatti talmente tesi che alcuni cittadini, nel febbraio del 1545, ordinarono una congiura con lo scopo di uccidere alcuni membri della famiglia, ma il complotto fu scoperto da un tale Falcone da Falconara. Dopo tante lotte, anche interne alla famiglia, e numerosi viaggi di delegazione dei cittadini a Roma, alla fine, nel 1576, papa Gregorio XIII spogliò definitivamente gli Ottoni del vicariato. Nel 1578 Nicolò d'Aragona, governatore generale della Marca, prese possesso della città in nome della Sede Apostolica. Matelica fu così governata da un Commissario Apostolico inviato dal Papa.

Dopo la signoria
Con Paolo V, nel 1618, Matelica fu affidata a un Governatore indipendente da quello della Marca, con piena giurisdizione, e per questo riconoscimento lo stemma di Paolo V Borghese fu innalzato sulle porte dei principali edifici pubblici. Si conservò l'antica divisione della città in quattro quartieri: Santa Maria, Campamante, Civita e Civitella. A capo d'ogni quartiere fu posto un Priore, facente parte di diritto del Consiglio generale. L'amministrazione della Città era retta da un Gonfaloniere e tre priori, eletti nel Consiglio generale. La popolazione accettò pacificamente il nuovo governo, nel quale vide un periodo di pace dopo secoli di lotte intestine. Nel 1692 la cittadinanza si riappacificò con i conti Ottoni, nominandoli cittadini onorari, e nel 1761 la città fu ricreata sede vescovile, retta con la stessa importanza insieme a Fabriano.

L'epoca napoleonica e il Risorgimento
L'arrivo dei francesi guidati da Napoleone soppresse il vescovado e, con la liberalizzazione dei commerci introdotta, la città subì un forte declino industriale, soprattutto nel settore della lana. Il ritorno sotto lo Stato Pontificio fu quasi un sollievo per la popolazione, che tuttavia issò le bandiere tricolori durante i moti del 1848 sul Palazzo del Comune per solidarietà ai rivoltosi di tutta Italia. Dopo la battaglia di Castelfidardo, in città furono esposte ancora una volta le bandiere e, nel plebiscito, il "sì" all'unione al Regno D'Italia vinse a maggioranza schiacciante.

Dal Regno d'Italia ai giorni nostri
La nuova situazione riportò il libero commercio e l'attività da industriale divenne agricola, impoverendo parecchio tutta la popolazione. Furono molti i matelicesi a partire durante la prima guerra mondiale, e la città subì, come tante altre, parecchi lutti. Nel corso della seconda guerra mondiale, Matelica ospitò un battaglione di soldati italiani, che, dopo l'armistizio, furono nascosti dagli abitanti e, assieme ai giovani del luogo e ad alcuni soldati stranieri, formarono la resistenza locale. La guida spirituale dei partigiani, Don Enrico Pocognoni, fu ucciso dai nazisti nel famoso Eccidio di Braccano il 24 marzo 1944. Dopo la guerra, grazie all'interessamento di Enrico Mattei, l'attività industriale riprese prepotentemente e, assieme a essa, la valorizzazione del Verdicchio, che ha portato Matelica in tutte le enoteche del mondo.

Toponimo
L'origine del nome Matelica è oscura e si perde nelle nebbie del tempo: in tutto il mondo non esiste nessun altro luogo o città con questo nome, e rarissimi sono quelli che terminano con la stessa desinenza. Si attesta l'interessante assonanza con Mensa Matellica, frazione di Ravenna, sito risalente all'età del Bronzo[6]. Il nome potrebbe essere di origine celtica e significare paese dei prati, dal celtico matten, prato. Ancora più azzardata è una supposizione di origine greca, essendo i greci stabilitisi nella vicina Ancona: dal greco màthesis, studio, oppure, con più cognizione, metelis, luogo di delizie. Se si considera l'antico nome dialettale Matelga, allora potrebbe essere interessante considerare la parola teleg, che in molte lingue antichissime, come quelle semitiche, significa neve, e dunque luogo coperto di neve. Si potrebbe far risalire l'origine al latino, alla forma mater liquoris, madre delle acque, anche se nessun fiume nasce nel suo territorio e, soprattutto, Plinio il Vecchio chiama la città Matilica Matilicatis, e dunque il nome le era già stato assegnato.


Recenti studi identificano l'origine del nome come la traduzione celtica Mati-lika, probabile traduzione del toponimo sudpiceno Kupra Vepets, buona lastra di pietra.